lunedì 28 luglio 2014

Date a Cesare, date a Dio.


Se c’è una frase di Gesù citata quasi sempre a sproposito nel corso dei secoli, è la celeberrima « Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio». Essa non può non richiamare alla nostra memoria il famoso episodio evangelico sulla questione del tributo da pagare all’imperatore romano.

Di solito la si cita per suffragare evangelicamente la tesi della separazione fra il potere temporale e quello spirituale, fra Stato e Chiesa. Ma è proprio a questo che alludeva Gesù quando la pronunciò?

Leggiamo, nell’evangelo di Luca, che lo riporta con maggiore drammaticità ed espressività, il suddetto episodio del «tributo a Cesare», in una traduzione molto vicina all’originale greco:

«E messisi a osservarlo, mandarono degli uomini che, fingendosi persone giuste, fossero pronti a coglierlo in fallo nel parlare così da consegnarlo all’autorità e al potere del governatore. E costoro lo interrogarono dicendo: “Maestro, sappiamo che parli e insegni con rettitudine e non guardi in faccia a nessuno, ma insegni secondo verità la via di Dio. E’ lecito o no che noi paghiamo il tributo a Cesare?” Intuita la loro malizia, disse loro: “Mostratemi un denaro: di chi ha l’immagine e l’iscrizione?” Quelli risposero: “Di Cesare.” Ed egli disse loro: “Rendete dunque (una volta per tutte)[1] a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio.” Così non poterono coglierlo in fallo nelle sue parole davanti al popolo e, meravigliati della sua risposta, tacquero». (Lc 20, 20-26)

Il racconto che, con alcune varianti, si trova anche nei vangeli “canonici” di Matteo (Mt 22, 15-22) e Marco (Mc12, 13-17), è preceduto da alcuni episodi nei quali Gesù entra fortemente in polemica con i sommi sacerdoti, gli scribi, gli anziani e i notabili del popolo, ossia con i rappresentanti dell’aristocrazia sacerdotale e laica di Gerusalemme che detenevano i mezzi di governo e dell’economia. E sono proprio costoro, nel brano succitato, che tramano contro di lui, sperando, con la loro domanda, di tendergli una trappola, per poi consegnarlo al governatore romano: uno che metteva in discussione la legittimità dell’autorità religiosa non poteva infatti restare in libertà.

Se Gesù avesse risposto che non era lecito pagare le tasse, lo avrebbero denunciato all’autorità romana e sarebbe stato messo a morte per insubordinazione e attentato allo Stato; se avesse detto che bisognava pagare le tasse all’imperatore e al senato di Roma, lo avrebbero denunciato al popolo che aveva in odio i Romani e sarebbe stato accusato di stare dalla loro parte. Nell’un caso e nell’altro Gesù sarebbe comunque morto: la trappola sembrava perfetta.
«Intuita la loro malizia», egli riesce però a sventare abilmente il complotto ordito contro di lui, andando subito alla radice della questione: chiedendo retoricamente quale «immagine» reca la moneta d’argento che gli viene mostrata, pone il problema radicale di quale autorità governa su Israele. A questo punto giova ricordare che l’imperatore romano si considerava e veniva considerato «divino»,  cioè figlio di Giove e a lui bisognava prestare culto. Egli assommava in sé sia il potere politico sia il potere religioso, come mostrava la suddetta moneta che riportava, infatti, su una faccia l’effige dell’imperatore Tiberio con la scritta Tiberius Caesar Divi Augusti Filius (Tiberio Cesare Augusto figlio del divino Augusto) e sull’altra il ritratto della madre di Tiberio, Livia Drusilla, simbolo della pace celeste e la scritta Pontifex Maximus (sommo sacerdote) E’ bene poi anche ricordare che, avendo liberato Israele dalla schiavitù d’Egitto, Dio era diventato l’unico re e l’unica autorità che il popolo ebraico riconosceva. Non bisogna dimenticare, inoltre, che all’ebreo era proibito farsi immagini di idoli (Es 20, 4 – Dt 4, 16) dal momento che il popolo stesso rappresentava l’immagine di Dio. Israele ha quindi Dio come autorità e re di cui è «immagine». Portando invece con sé e trafficando negli affari con la moneta dell’imperatore, i capi dei sacerdoti, gli scribi e i notabili del popolo, cioè la gerarchia nel suo complesso, dichiarano pubblicamente di portare in sé non più «l’immagine» di Dio, ma quella del re pagano che pretende di essere di natura divina e opprime il popolo eletto. Ne consegue che i rappresentanti della religione ufficiale, i capi responsabili del popolo rinnegano Dio come loro Re e Signore e si piegano a essere schiavi di un tiranno. Utilizzare le monete coniate da un re straniero e invasore significa, infatti, legittimare l’invasione e dichiararsi suoi sudditi, usufruire dei suoi benefici e favorirne il potere. I capi religiosi, inoltre, usando il denaro di Cesare nei loro traffici abdicano al loro ruolo di guide del popolo: coloro che dovrebbero guidare il popolo, il cui re è il Dio d’Israele, lo inducono invece a peccare di apostasia e di idolatria, riconoscendo l’autorità ad un imperatore che non può godere di alcun diritto di governo su Israele. Essi dimostrano così di confondere Cesare e Dio, ponendoli sullo stesso piano e testimoniano che Israele si è allontanato da Dio e ha commesso sacrilegio.

Alla constatazione, ovvia, di scribi e sommi sacerdoti che la moneta reca l’immagine di Cesare, Gesù risponde che è giusto che la moneta, che è proprietà dell’imperatore, gli venga restituita, ma la risposta di Gesù non è una risposta pacifica e superficiale e tanto meno una pronuncia sulla legittimità del potere o dell’autorità. Non è un escamotage per sfuggire al dilemma. La sua risposta scava nel profondo. Richiamando i leader d’Israele alla coerenza, Gesù dice loro che, se accettano l’autorità di Cesare, pur essendo un usurpatore dei diritti di Dio e del popolo e se ne beneficiano perché trafficano con il suo denaro che utilizzano a loro vantaggio per i loro traffici, è loro obbligo pagare le tasse perché non fanno altro che restituire a Cesare ciò che gli appartiene, cioè ciò che egli ha imposto loro e che essi servilmente hanno accettato. Fare pagare le tasse è un suo diritto perché essi ne accettano i servizi. Ma, usando il suo denaro e quindi riconoscendo la sua autorità su di loro, si sono posti fuori dell’autorità di Dio. Se hanno accettato l’autorità di un «idolo», cioè di Cesare, significa che hanno rinnegato quella di Dio su di loro.

La risposta di Gesù, non estrapolata dal contesto in cui venne pronunciata, assume un significato completamente diverso. Egli in realtà non prende posizione sul tributo da pagare o meno all’occupante romano, ma ordina soltanto di smetterla una volta per tutte di collaborare al culto del divino Cesare, e il cessare questa collaborazione passa attraverso la restituzione di ciò che gli appartiene, vale a dire la sua moneta.

L’opposizione che Gesù pone tra Cesare e Dio è quindi, evidentemente, di natura prettamente religiosa, non politica: si tratta di scegliere tra Dio che regna in Israele e Cesare che occupa illegalmente Israele e ha preteso di usurpare la regalità di Dio. D’altra parte, anche i suoi interlocutori sembrano porre in questi termini la questione, tendendo a precisare, nella premessa alla loro domanda, che Gesù insegna «secondo verità la via di Dio». Gesù li richiama allora alla responsabilità di convertirsi, cioè di ritornare alla loro dignità di figli di Dio che non possono accettare di essere servi e conniventi di un’autorità illegittima.

Le sue parole sono quindi un’esortazione a rompere certi legami con il mondo, quando questo si rende responsabile di situazioni di ingiustizia, un’esortazione alla «disobbedienza civile» quando le leggi dello Stato risultano contrarie all’etica non violenta dell’evangelo.

Il senso religioso della risposta di Gesù risulta, a mio avviso, ancora più evidente in altri due testi evangelici che riportano l’episodio in questione: il vangelo “apocrifo” di Tommaso e il Vangelo Egerton.

Al detto 107 del Vangelo di Tommaso leggiamo infatti: « Mostrarono a Gesù una moneta d’oro e gli dissero: “Gli uomini di Cesare ci chiedono le tasse. Egli disse loro: “Date a Cesare ciò che è di Cesare, date a Dio ciò che è di Dio, e date a me ciò che è mio”».

Il Vangelo Egerton consta di un insieme di frammenti di papiro di un codice in lingua greca. Rinvenuto nel 1934 in Egitto, prese il nome dalla persona che finanziò l’acquisto del primo frammento. Questo vangelo, chiamato anche Vangelo sconosciuto, in quanto non noto da fonti antiche, è ritenuto essere uno dei frammenti più antichi di vangelo. I frammenti che lo compongono, custoditi alla British Library di Londra, sono stati datati paleograficamente alla seconda metà del II secolo, mentre il vangelo in essi contenuto fu probabilmente composto nel 50-100. Vi leggiamo: «Vennero da lui e lo interrogarono per metterlo alla prova. Chiesero: “Maestro, Gesù, noi sappiamo che tu sei [da Dio], in quanto le cose che fai ti mettono sopra tutti i profeti. Dicci, allora, va permesso di pagare ai governanti ciò che è loro dovuto? Dobbiamo pagarli o no?” Gesù sapeva cosa stavano facendo, e si indignò. Poi disse loro: “Perché mi chiamate maestro, ma non [fate] ciò che dico? Con quanta precisione Isaia profetizzò di voi dicendo «Questa gente mi onora con le labbra, ma i loro cuori restano molto lontani da me; la loro adorazione per me è vuota [in quanto insistono su insegnamenti che sono umani] comandamenti […]»” »

Come emerge da questi due brani, ciò che preme a Gesù è di ripristinare il giusto rapporto dei capi religiosi e del popolo d’Israele con Dio e di ridefinire il loro rapporto con se stesso, affinché riconoscano in lui l’inviato dal Padre.

Il brano evangelico del «tributo a Cesare» di per sé non pone dunque un’opposizione in senso politico tra «Cesare» e «Dio», non determina i confini tra le due sfere, né tanto meno dice che c’è una sfera d’influenza di Dio e una d’influenza di Cesare. Questo ragionamento è estraneo al pensiero di Gesù perché illogico, dal momento che, come affermerà davanti a Pilato che ribadisce il suo potere politico, il suo regno «non è di questo mondo» (Gv 18, 36), cioè non si assomma ai regni della terra e nello stesso tempo si estende a tutti i regni della terra, fino agli estremi confini dell’umanità. Gesù quindi non parla assolutamente di separazione tra «Stato e Chiesa», in quanto il suo Dio è per natura e per essenza un Dio laico che invita gli uomini a lasciare ogni potere per assumere la testimonianza dell’amore gratuito.

«Il mio regno non è di questo mondo» significa che non ha come obiettivo il dominio, ma la coscienza consapevole e libera delle persone che servono i propri simili con gli stessi sentimenti di Dio, avendo a cuore in primo luogo i destini dei poveri e degli esclusi alla luce della prospettiva delle Beatitudini (cfr. Mt 5, 1-10).

«Date a Cesare quello che già appartiene a Cesare» è l’invito a riprendere la nostra immagine di Dio che lui stesso ha impresso nei nostri cuori perché fossimo nel mondo la testimonianza della sua presenza, rendendolo credibile attraverso la credibilità delle nostre scelte e delle nostre azioni.

[1] Il testo greco ha il verbo all’imperativo aoristo, un tempo assoluto che indica un’azione compiuta in se stessa, una volta per tutte.

Fonte: http://www.chiesavaldesetrapani.com/public_html/it/articoli-di-violairis/580-date-a-cesare-date-a-dio

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